Quella che segue è un’intervista e non un racconto. L’incontro, inatteso e non intrappolato in alcuna registrazione, è qui riportato quanto più fedelmente la memoria abbia potuto. Laddove i ricordi si facevano più deboli, nulla è stato inventato o forzato e tutto è teso a conservare quei momenti nel modo più neutro possibile.
S.
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Le metro sono uno scrigno di tesori antropologici. Invase da lavoratori distrutti, studenti disperati, casalinghe sudate. Un’umanità sbandata e senza appigli che sembra muoversi muta, in un’atmosfera ovattata ma chiassosa. La staccionata tra i normali e i casi umani è così poco definita che seduto su quelle sedie di plastica, ogni singola volta, non riesco a non domandarmi a quale fazione io appartenga. Quattro o cinque passeggerei, fermata dopo fermata, cadono uno dopo l’altro. Le protezioni, gli ostacoli svaniscono lasciandoci a quell’evidentemente inevitabile uno contro uno. Arrivo un po’ zoppicante e incerto, per nulla sicuro di riuscire a superare l’avversario. Lui dovrebbe avere una benda nera da pirata piazzata sull’occhio destro, a coprire l’orbita vuota e proteggere da quell’orrore i viaggiatori. La definizione della disperazione che spesse volte si esplica nella presenza di elementi forti e caratteristici (il fetore nitido dell’alcool alle dieci di mattina, la cantilena ridondante d’uno schizofrenico, la ricerca d’una persona mai esista o non più esistente nella nenia d’uno psicopatico), assume ora le sembianze d’un vuoto: l’occhio destro non c’è più. Al suo posto nulla. La pelle. L’orbita vuota come un cassetto vuoto. Un pezzo di puzzle mancante. Le ossa craniche scoperte, così vive alla vista e mai viste: osso frontale, piccola ala dello sfenoide, il corpo mascellare che crea il pavimento dell’orbita, quello sul quale l’occhio, per capirci, riposa nei nostri volti. L’osso lacrimale, l’osso mascellare, l’osso zigomatico e tutto il resto. Ogni cosa è li, in bella vista, senza protezione. Ma non vedo nulla se non l’orrore che provo. E la sporcizia, il putridume che, reale o meno, sembra riempire quel cazzo di inattesissimo vuoto. Uno contro uno con un uomo senza un occhio. Eccomi li che tento di schivare il divenire. Rimasti quasi soli in tutto il vecchio vagone, mi sento osservato. Lui davanti a me. Un caso umano contro un ancora umano. Due casi umani. Due ancora umani. Decidete voi la combinazione che più vi soddisfa. Io sono qui e lui è qui e mi sento osservato. Da un unico occhio, si intende. Ecco, arriva la mia fermata, scendo. Non è la mia fermata. Ho sbagliato. Era quella dopo. Devo attendere. E lui è sceso. E si mette vicino a me.
Siamo attratti dalle cose che ci fanno schifo. Quel che ci suscita ribrezzo funziona per i nostri sguardi pruriginosi come calamita per il ferro. Le mani dell’assassino, un feto deformato, su youtube bambini con sei gambe, gemelli siamesi, uomini che camminano sulle braccia. Insistiamo, indugiamo sui loro difetti — attrazione letale — , guarderemmo nel buco del culo della morte se ci fosse permesso, solo per controllare com’è fatta quella puzza orrenda, quel buco nel quale tutti finiamo. Osserviamo i cadaveri dei nostri cari — solo per salutarli? — e i corpi sventrati negli incidenti automobilistici. Questo vecchio — tra i trent’anni e mille, qualsiasi età potrebbe essere quella giusta per un volto così scavato e sporco — quest’uomo non ha un occhio ed è a contatto con la mia spalla. Per delicatezza e per il violento orrore non voglio indugiare su quel dettaglio. Il suo puzzo non è piacevole. Resistere alla tentazione di vedere com’è che è l’orbita quando l’occhio non c’è più — è una curiosità micidiale ed istintiva. Non-voglio-non-voglio-non-voglio lo faccio di sguincio, temendo — tremendo — e ragiono «come può vedermi da questo lato?» faccio anche delle prove / chiudo un occhio e controllo fino a dove la vista periferica d’un solo occhio riesce ad arrivare / «ok non può vedermi». Indugio ma non voglio. Guardo e non guardo. Capisco ma non capisco nulla di quell’assenza, vene, sozzume, vermi vedo tutto in un buco solo ma non vedo nulla in realtà. Continuo a sentire il suo puzzo, continuo a sbirciare con la coda dell’occhio o con tutto il mio occhio come se stessi davanti ad una serratura e dall’altra parte lei, bionda, rotonda e bellissima dentro una doccia. Al contempo ansia, curiosità — come sarà diventata? — e pentimento. Non ci accettiamo mai abbastanza.
«1986 il lavoro alle poste. 1989 cado anche io». È un gancio perfetto. È voce ed essenza. Un evento che apre la mia mente sul suo prima e sul suo dopo. L’uomo senza occhio ha una voce, la voce che vi sareste aspettati e che mi immagino. La voce stanca, rotta, roca, che gratta. La realtà ha ben poca immaginazione. L’uomo ha una voce ma non avrei voluto sentirla. Il cuore mi sta battendo più forte. Tremo, lo scrivo senza vergogna. La situazione è spaventosa: passi venti minuti con una pura presenza, un personaggio tratteggiato che suscita forti sensazioni ma non riesce a suscitare paura perché sempre più bidimensionale, piatto e senza vita. Muto. Poi parla e vive e devo controllare le sensazioni, la paura, i tremori. Metto a fuoco le sue parole, tento di comprenderle e realizzo che dovrei e vorrei rispondere. Nel 1986 lavorava alle poste. Anche mio nonno. «Si? Anche mio nonno lavorava alle poste. Quel palazzo nero all’EUR?». «Nel 1986 mi hanno licenziato». «Capisco.». Penso e banalmente dico «Mi spiace». Qualche istante di silenzio mi incoraggiano a domandare. «Lei è di Roma?». «Si.» Silenzio. Non capisco minimamente chi ho davanti né cosa dire per scoprire qualcosa in più. «Quando hanno deciso di eliminarmi l’hanno fatto non ci hanno mica pensato due volte. Erano anni che preparavano quel piano, missili e pistole.». Sono piuttosto confuso. «Ho tentato di prevenire tutto mica sono scemo ma erano troppi e Andreotti era troppo forte.». Ok, ora sono indeciso tra l’eccitazione per lo scoop, inaspettato e portentoso, ed il dover accettare d’aver di fronte i deliri di uno schizofrenico. «Allora cosa dovevo fare. Giro giro per non farmi seguire, anche se mi seguono sempre, a volte non mi vedono, io sono bravo a nascondermi sa, sempre per strada, Pesaro, Pescara, Perugia, Rovigo, Rogliano, Roma. Quando però lui è morto ho tirato un sospiro di sollievo e mi sono fermato un po’ a casa di mia nonna, 108 anni, ci siamo innamorati, ma ho ripreso a scappare perché poi l’hanno detto che era ripartita la caccia. Ma che pensano che sono un cinghiale? Corso via subito. Una notte ero vicinissimo, l’ho visto che mi stava dietro ed ho sparato. È stato quando poi il giorno dopo sono arrivato a Perugia.».
Prova a fermarla tu una frana. Ci provo. «Ci sono stato da piccolo a Perugia. Non ricordo quasi nulla. Come ci si è trovato?» «Dammi del tu molto bene, è una città carina. La gente non era male. Poi portavo ancora la benda per coprire il buco o almeno un paio di occhiali. Avevo due amici. Poi uno l’hanno ammazzato.». Glisso la chiosa e torno sull’occhio: «Si? E come mai poi hai deciso di toglierla?». «Cosa te ne frega? Mi sparavano i missili hai capito? È tutto un cerchio come l’occhio, vuoto è più cerchio. Missili tutti i giorni. Dovevo dormire per strada, per forza, non c’era altra soluzione. I miei figli mi hanno cercato mi hanno trovato e mi hanno riportato a Roma, Giulietta tanto non si è fatta neanche vedere, stava col nano, dio santo una vita insieme, cresciuti insieme, un abbandono bastardo e non mi vieni neanche a trovare, non mi guardi in faccia, negli occhi, da sette mesi, no, da anni. È bastato pochissimo per capire che i miei figli stavano ormai contro di me, assieme a quegli altri. Ho trovato un missile sotto il letto di Michele, per fortuna era al lavoro, sono riuscito a tornare in strada.»
Giulietta, Michele i missili. È completamente impossibile controbattere, fare luce. E d’altronde che bisogno ce n’è? Rimango un altro po’, certo che al momento giusto sarà lui ad andarsene. Mezza parola lo rimette in moto. «E quin…» «Proprio così senza scampo. Vedi che ora sono qui sotto. Almeno fino alle 18 l’inverno. Alle 20 d’estate, peccato perché fa più caldo, ma sono protetto qui, fuori solo quando è buio. Non so se riuscirò a scappare ancora a lungo, sono stanco e credo mi abbiamo trovato, ormai. Ma cosa vuoi farci ci ho provato. Mi metteranno in mano una pistola e convinceranno tutti del suicidio. Ma certo! Il vecchio pazzo senza un occhio s’è ammazzato! No, non crederti che saresti stato più bravo, tutti a giudicarmi, io lo capisco che non ci credete, che non vedete e non sentite. Fino a qualche tempo fa credevo che forse avevate ragione voi, erano solo voci nella mia testa. È stato il periodo in cui ho rischiato di più perché non mi fidavo di me stesso. Ma ora è tutto chiaro. Ricordo bene anche il giorno da piccolo che è iniziato tutto, mi hanno scelto per l’esperimento ma io vedi sono ancora qui, ancora fuggo. E quando mi prenderanno amen, sono fiero di quel che ho fatto, sono stato sempre più veloce di loro.». Wow. Se anche volessi domandare qualcosa non avrei la minima idea di quali parole usare né di dove indirizzare la mia curiosità. O forse dovrei fare qualcosa per cercare Michele? O Giulietta? Ma quante possibilità che esistano veramente? E poi, d’improvviso: «Esisteva solo lei, bionda e Minuscola, l’Adoravo, mi Amava, e poi, nel 1989, cacciato da tre anni dal lavoro, persi anche lei. Non mi voleva più, voleva un altro. Un nano massiccio, scuro e, t’assicuro, viscido. Da lì a perdere un occhio e poi tutto il resto il passo è breve.».
Improvvisa sincerità e definitiva fine delle comunicazioni.
Illustrazioni di Alessandro De Stefano