Nello spazio torrido e nervoso che ingloba come una bolla qualsiasi essere vivente quando, al centro dell’estate, non ha ancora mai posto fine alle proprie attività, io e il mio gruppo di amici abbiamo deciso di trascorrere una serata in un dancing.
In previsione di una di quelle notti della stagione caldissima in cui le zanzare suonano a intermittenza la loro personalissima armonica a un passo dai nostri padiglioni auricolari, raggiungiamo Salice Terme con l’intento di immergerci per qualche ora in una specie di mood retrò di villeggiatura e riposo anziano, come si confà da sempre a questo piccolo centro di residenze estive a ridosso di Pavia, la mia città.
Salice, un luogo ultrafelliniano di acque termali e insegne dismesse, alberghi abbandonati chiusi da un decennio e campi da calcio per i ritiri di squadre di serie A, rimaterializza ai nostri occhi, dopo soli pochi istanti di permanenza, ombrellini nei cocktail e nelle coppe di gelato ‘mangia e bevi’, poltrone in vimini su cui siedono settantenni silenziosi, acque toniche in bicchieri alti di vetro finissimo serviti da camerieri dai movimenti tanto precisi quanto robotici.
All’ingresso del locale La buca, notiamo due gigantesche locandine degli eventi in programma: un live di Fausto Leali e uno della cantante Graziella, una donna elegante dai capelli tinti molto rossi e dalla carnagione chiarissima che potrebbe serenamente prendere parte alla nuova stagione di Twin Peaks.
Entriamo senza pagare ma con l’obbligo di una consumazione e quello di riconsegnare quindi, all’uscita, un piccolo biglietto a dimostrazione dell’avvenuto pagamento del nostro cocktail.
La buca si trova in fondo a una pineta, in una sorta di conca dantesca, un cratere, appunto, scavato nella terra, al centro di una grande distesa di verde. Da una parte, in lontananza, ricordo di un maneggio che vedevo infinito da bambina, dall’altra c’è invece una di quelle piscine molto grandi, architettonicamente arrotolate su sé stesse, con spazi concavi e convessi a definirne i confini e circondata da tondi lampioni bianchi accesi per tutta la notte, con l’intento, che a me è sempre parso primario e più che evidente, di tenere vivo il nostro desiderio di scavalcare cancelli, spogliarci in pochissimi secondi e tuffarci, fare un bagno così lungo da inglobare persino il sonno, da farci addormentare per poi risvegliarci riemergendo da quel fondo turchese.
Ma La Buca, che cos’è? Una vecchia sala da ballo, una balera o un dancing, insomma, uno spazio dove donne e uomini perlopiù anziani e in coppie che sono parti di gruppi più ampi di coppie che a loro volta si sono formati e smembrati e rinnovati al battito di divorzi e nuove unioni, si intrattengono per ore in balli di ogni sorta.
Appena entrata vedo un dj di oltre sessantacinque anni in pantaloni color kaki e camicia azzurra con maniche arrotolate tenuta rigorosamente dentro i pantaloni. Un classico estetico agée senza tempo. Mi avvicino per sbirciare nelle sue lunghe borse porta cd per avere la riprova di quanto già sapevo: il repertorio delle balere non esiste o meglio, procede parallelo alla discografia del mondo reale ed è composto, al massimo, da grandi hit di autori famosi ricantate da cantanti sconosciuti. Proprio mentre cerco di scrutare con un’attenzione quasi invadente i nomi degli anonimi esecutori dei brani più famosi della nostra storia musicale, parte Le notti lunghe di Adriano Celentano cantata da chissà chi. Sobbalzo. Le notti lunghe è una canzone che ascolto spesso, ha un tiro 60s tagliente, è un twist molto estivo, ci senti la sabbia sotto le dita, la luna rossa e baci per nulla morbidi scambiati nell’adolescenza in una pineta sulla costiera amalfitana.
Le coppie si stringono sulla pista, mi avvicino un pochino per guardarle meglio, le osservo stringersi nella meccanica dei passi imparati in due, quella di un ballo del mattone, di un lento, di una bachata. Li guardo e in qualche modo, nascostamente, provo una forma di invidia per nulla cerebrale che mi si irradia lentamente nel petto e ha a che fare con qualcosa di ancestrale, lontanissimo, forse un richiamo naturale più che borghese al ciclo naturale, alla riproduzione, all’intimità di due corpi che si sfiorano da decenni, qualcosa che la danza, rito archetipico per ognuna di queste faccende, amplifica all’improvviso.
Le donne vestono in abiti che non lasciano intravedere alcuna forma di inutile pudore estetico, i loro cinquantacinque, sessantadue, settant’anni non hanno paura di abiti scollatissimi, rossi, coperti di pailetters luccicanti, gonne corte strette sulle natiche, non temono l’invadenza di profumi decisi o scaduti, acidi all’olfatto. Sto assistendo da molto vicino a una forma di consapevolezza animale umanizzata e declinata nella civiltà di una pista da ballo. Inevitabile dunque concedersi qualche considerazione sui decenni in arrivo, sulla vecchiaia e su quanto questi corpi resistenti anche a parti, diete fallite, lampade lasciate a metà per eccesso di raggi solari artificiali, sembrino mordere il proprio avvenire, sgranocchiare il tempo in arrivo, quello che resta, e gestirlo sulle proprie curve senza paura di non essere abbastanza qualcosa per qualcuno.
Gli uomini, perlopiù, le mangiano, le accarezzano nella danza e ai bordi della pista, in sottofondo Gianni Morandi, Mario Tessuto, Bruno Martino cantati dalle solite voci irriconoscibili, molti intanto sorseggiano con disinvoltura questa bevanda alcolica leggerissima al gusto di frutta, un drink arancione sfumato, da telefilm anni Ottanta, che anche io sto bevendo a velocità inconsueta per via del caldo eccessivo di questa luminosissima serata. Intorno a me camicie scollate, catenine al collo, mocassini, pantaloni bianchi, gel nei capelli e acqua di colonia.
Sono sommersa da questi profumi di donne e di uomini di un tempo che non è il mio e quando, camminando lungo il muretto che costeggia la pista, mi siedo, un signore sui sessantacinque anni si mette vicino a me. Sento il profumo del suo dopobarba nelle tempie, se chiudo gli occhi non so dove sono e nella mia mente prende forma lentamente l’immagine del primo ragazzo di cui mi invaghii, negli anni novanta, tra le consolle di qualche videogioco di un bar e scie di Eternity by Calvin Klein. Uno con cui ci eravamo scambiati solo due frasi. Io: «che profumo usi?» Lui: «Vieni a fare un giro in motorino?».
Non ho dimenticato di essere già stata diverse volte alla Buca da bambina, con la mia babysitter, per ascoltare sua figlia, cantante in una di quelle orchestre di liscio moderno che animano forse da sempre la programmazione di locali come questo.
B. cantava e io giù dal palco, intimidita, circondata da persone tutte molto più grandi intente a danzare instancabili intorno ai tavoli, guardavo con curiosità le stesse cose che mi ritrovo a osservare adesso. I loro cocktail colorati, le loro acque brillanti in bicchieri cilindrici con ciondolanti fette di limone sui bordi, i corpi brillanti di trucchi eccessivi, scuri di abbronzature chimiche che già allora, dal pallore assoluto della mia pelle di piccolissima donna, osservavo aliena con grande curiosità.
Lì, su quella pista, come su quelle simili di altri posti spesso bui e collocati geograficamente nella dispersa provincia estrema ai bordi delle strade statali – luoghi invernali dai nomi esotici come Sandalo Cinese, Antares o Tabù – ascoltavo partecipe la prima musica della mia vita, la stessa musica italiana che oggi è parzialmente parte delle mie ossessioni, entravo in contatto con canzoni che avrei scoperto essere in qualche modo inesistenti, quel repertorio rieseguito da anonimi per abbassare i costi del diritto di riproduzione della discografia italiana.
Mentre il dopobarba del signore che mi siede accanto ha creato una nuvola di profumo novecentesco intorno a noi e mentre i miei amici girano sparsi in ogni angolo di questa microcittà danzante, ripenso alla Lambada, vista ballare per la prima volta lì, su quella pista, da un uomo e una donna bassini che avevano conquistato una posizione centrale cacciando involontariamente fuori da quel perimetro ogni altra coppia di ballerini. Ricordo in modo netto quel turbamento che oggi non provo, il loop di quella melodia lontana, le gambe di lui e di lei incrociate, piegate, evidentemente in grado di suggerire più di una semplice tensione erotica, una pulsione evidente anche a un bambino a cui questi movimenti inediti apparivano magici e tanto criptici quanto chiari, di un insistente e solo parzialmente indecifrabile sottotesto.
Ora la lambada non suona. Vedo alcuni smartphone apparire tra le mani dei componenti delle coppie in pausa fuori dalla pista, conto mentalmente oltre centocinquanta borse da donna che vedo appoggiate sulle sedie mentre le proprietarie stanno ballando. «Che straordinaria fiducia nel prossimo», penso, e mi dico che forse esiste un patto tra queste donne danzatrici, un patto di fiducia silenziosa suggellato dai movimenti condivisi. Penso che si fidino e che dunque, in qualche modo, non appartengano al mio tempo. A un tempo di cui pure vedo espressione nel botox che fiorisce sui loro volti ma che, come ormai accade raramente, questa sera non può in alcun modo essere protagonista di critiche e ironie, un tempo che slitta in secondo piano rispetto alla legge antica che ha condotto queste signore tutte qui, innamorabili, fisiche, in questo altro spazio, lontano, in questa buca calda dell’estate e già pronta a coprirsi per i primi balli invernali.
Questo racconto è apparso la prima volta su I Racconti belli dell’estate, ebook gratuito pubblicato da Cosebelle magazine.