Quel giorno, in macchina, oziosamente mi sono chiesto che cosa avrei risposto a qualcuno che mi avesse domandato, prima o poi nella vita, cosa intenda io per letteratura, cosa ci trovi nell’attività dello scrittore, come possa io descrivere questa attività, soprattutto. Insomma, mi sono chiesto che cosa significhi scrivere. Non mi ritengo uno scrittore, anche se scrivo, forse perché il termine – scrittura o scrittore – mi mette a disagio: un termine borioso, alle mie orecchie, e una parola che posso solo amare segretamente, nell’intimità, come una schiena che abbraccio o una bottiglia di vino che stringo per strada, di ritorno da un supermercato. Eppure quel giorno, in auto, in qualche modo la domanda mi si è posta, senza che io la cercassi o la invocassi. Non ero io che guidavo la macchina. Ero seduto, da solo, nei sedili posteriori. Di fronte c’era Roberto, con le mani sul volante della Renault Picasso nera, e nel sedile accanto Laura. Agosto. Immensamente agosto. Superstrada da Bari per Monopoli, dopo un bagno sulla spiaggia di Cozze.
Qualcuno tra gli scogli giocava a stone balancing: sistemare in equilibrio una pietra sopra l’altra. Tardo pomeriggio, luce alta e finestrini abbassati. Il mare alla nostra sinistra. Per effetto deformante della cronaca la Grecia mi sembra a due passi e sorella. Un filo di radio che si sposta come un vento, avviluppato dall’incrocio di correnti dei tre finestrini aperti. Roberto e Laura mi parlano dell’autobiografia di Malcolm X e mi dicono che è bellissima. Forse dormo. Forse no. Le palpebre si sono abbassate e ci sono queste figurine, questi filamenti cerebrali generati dal caldo, dall’afa, che con garbo bussano e nel dormiveglia mi pongono la domanda: che cosa è la scrittura. Mi é venuta in mente una risposta: scrivere, ho pensato, significa avere la vita sempre in bocca, tenere la realtà sempre in bocca, stretta tra i denti come un pezzo di carne da succhiare, che non va mai mollato, come il cane tiene in bocca l’osso e non c’è modo di toglierglielo di bocca, perché questo generoso grande cane continua a succhiare, finita la carne continua a succhiare, ad esaminare con le proprie mandibole vive, con le papille gustative ingrossate, che cosa è l’osso, il suo aroma più interno, ultimo, primario.
Intanto la macchina continuava ad andare e poco dopo io, Laura e Roberto arriviamo a Monopoli.
Camminiamo sospinti da quella termica piacevolezza e illusoria sospensione che diffonde la pietra bianca usata nella pavimentazione delle città pugliesi. Dev’essere questa sensazione sotto la pianta dei piedi a portare i turisti e a far crescere il Pil della regione. Prendiamo un aperitivo di fronte al mare. Tre vini bianchi. Dodici euro. Le barche si muovono lentamente e sembrano mosse da un filo sull’orizzonte. Un uomo e una donna anziani pieni di un fascino buffo ci passano davanti. Quando sei vecchio forse sei ancora più libero di fare quello che vuoi, pensiamo, di tingerti i capelli di viola e di metterti delle strane giacche. La cameriera è molto bella. Non sembra di qua. Sembra arrivata in Puglia dalla metropoli, dal nord, perché ha scelto di vivere al sud. Dal bar arriva una musica di Curtis Mayfield. Appena percettibile, ma chiara. Si sentono i fiati e l’arpa. Poi Roberto dice di volermi mostrare una chiesa. Andiamo. Mi dice che è una specie di chiesa messicana, come quelle che i banditi col sombrero incontrano nei western. È la basilica di Santa Maria del Suffragio, detta anche il Purgatorio, in via dell’Argento. In vari punti della facciata si nota il dettaglio di una quantità di teschi e tibie scolpite. Ecco perché messicana. Entriamo. In una piccola stanza alla nostra sinistra sono conservate delle mummie. La mummia di Giovanni Amata Giaquinto, governatore di Monopoli scomparso il 24 novembre 1793, e perfino la mummia di una bimba: Plautilla Indelli di Francesco, che ha il volto grigioverde incorniciato da un pizzo. La stanza comunica con la canonica. La porta della canonica è socchiusa, ma posso sbirciare. Vedo un mondo completamente diverso dal mondo a cui sono abituato. Questo mondo che vedo oltre la porta è antico, disadorno, un po’ tetro.
Vedo gli abiti talari appesi a una fila di grucce, intorno a un bastone, e un grande tavolo di legno. Il tavolo s’immerge rettangolarmente in una penombra che mi sembra odorare di muffa. Io sono sempre più abituato alla grafica, ai colori squillanti, ai filtri, agli oggetti da cliccare, alla luce artificiale degli schermi.
Perciò l’occhio si riempie all’improvviso di una fresca oscurità che in qualche modo mi racconta la vita del prete che qui serve messa. I suoi lunedì, i suoi martedì. La mattina e la Monopoli d’inverno deserta. La voce monotona oppure viva e presente della religione. I passi in tonaca che dal silenzio della ZTL portano al centro attraversato dalle auto.
Finalmente entriamo nella chiesa vera e propria e qui ha luogo una coincidenza. Cioè qualcosa che accade ogni tanto e imprevedibilmente nella vita. Un evento non algoritmico, strutturalmente diverso dall’apparizione della pubblicità di uno shampoo su Facebook, venti minuti dopo aver digitato shampoo su Google. Vedo ai piedi dell’altare, dipinta sulla pietra, l’immagine di un teschio che morde un libro. Un teschio che tiene un tomo stretto tra i denti. Non è esattamente l’immagine che poco prima, in macchina, mi ero raffigurato nel dormiveglia, rispondendo alla domanda su che cosa fosse la scrittura. Ma è come se quella immagine avesse un po’ avanzato nel tempo, la creatura che mastica fosse divenuta un teschio, a forza di masticare, e quel pezzo di carne, quell’osso, si fosse tramutato in un libro per effetto della masticazione, e forse per il travaso di una virtù dal corpo di chi masticava all’oggetto masticato. Significa questo scrivere? Spremere la vita del corpo, goccia a goccia, fino a trasformarla tutta intera in un libro?
Porto con me questa immagine potente e infernale fino a Milano, per chilometri e chilometri. Macchine, autobus, treni. La conservo nella formaldeide della memoria e intanto faccio un po’ di telefonate a numeri che trovo qua e là cercando su Google. Pro Loco eccetera. Si mettono in moto persone molto premurose e affezionate alla loro città, Monopoli. Chiedo informazioni, lumi sul significato di quella immagine, fino a quando qualcuno non mi manda un messaggio, dopo aver parlato con Don Sandro, e mi dice che «si può ipotizzare che si tratti del libro della vita. Apocalisse di San Giovanni, capitolo 20, versetto 12. “E vidi i morti, grandi e piccoli, che stavano ritti davanti a Dio, e i libri furono aperti: e fu aperto un altro libro, che è il libro della vita; e i morti furono giudicati in base alle cose scritte nei libri secondo le loro opere”».
Tutto qua. Pare non c’entri granché con quel discorso allegorico sulla scrittura che mi ero fatto. Con tutto quel film che mi ero fatto in testa, non c’entra niente. Resta solo la coincidenza e il trito pensiero magico che ha suscitato. Ma l’estate non è ancora finita. Continua a offrire volte celesti rotonde, e un mattino, sopra un autobus che correva per i tornanti di una montagna, mentre finivo di leggere Kassel non invita alla logica, l’ultimo libro di Enrique Vila-Matas, mi sono guardato intorno e ho pensato – pensato con una nitidezza assoluta: «ma io ti amo, mattino». E poi sono tornato sulla pagina finale di Vila-Matas, che ho letto fino all’ultima riga: «L’arte era, in effetti, qualcosa che mi stava succedendo, accadendo in quel momento stesso. E il mondo di nuovo sembrava inedito, mosso da un impulso invisibile. E tutto era così rilassante e stupendo che risultava impossibile smettere di guardare. Benedetta sia la mattina, pensai».