RARESTORIE #1 || Hockey alieno
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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RARESTORIE #1 || Hockey alieno

«Poi uscimmo dall’albergo e mi si gelò il sangue: centinaia di uomini e donne in abiti pseudo-hippie muovevano verso l’ingresso, i raeliani erano arrivati.»

L’hockey su prato è uno sport nobile e antico. Non servono pattini o bardature ingombranti, a meno che non giochiate in porta. Si gioca undici contro undici su campi in sintetico; si dispone di bastone e di pallina e a scuola, quando lo raccontate ai compagni, vi guardano con bonaria simpatia, come a un vecchio un po’ tocco che colleziona foglie. Nel 2000 andai a un campus estivo con la mia squadra. Eravamo un centinaio di ragazzini, dai dodici ai diciasettte anni, sufficientemente disciplinati da lavarci ogni giorno, sufficientemente selvaggi da ululare alle poche cameriere che attraversavano la mensa durante i pasti. Io avevo quindici anni, è un periodo della vita in cui non sai nulla, sei convinto di tutto e in ogni momento può capitarti qualcosa che ti segnerà per sempre.

La mattina, dopo la colazione, ci riversavamo su enormi campi smeraldo, rilucenti sotto il sole pulsante dell’Emilia. Ci allenavamo come dei marines, con una costanza che si perde negli anni; la struttura, che comprendeva un grande albergo bianco e svariati campi da gioco, era lontana dai centri abitati, isolata nella campagna. La vita di un giocatore di hockey è fatta di: corsa, scatti, dritto e rovescio, sudore, passaggi di prima, passaggi di seconda, schiva la palla, stop e tiro, drive (tiro forte), push (tiro accompagnato), cadi, triangola in profondità, non alzare troppo la palla, non alzare troppo il bastone, stai sulle gambe, non toccare la pallina con i piedi, non prendere la pallina con la parte tonda del bastone, distendi il bastone per stoppare i tiri forti, inclina il bastone per tirare alto, corri più veloce della pallina, segna, vinci la partita. Ricordo quella settimana con piacere, poi una domenica venne il momento di fare i bagagli e di tornare a casa. Ero nella hall, seduto su una fredda poltroncina in cuoio, avevo la borsa pronta e aspettavo la partenza. Davanti a me brulicavano ragazzini, borsoni, custodie per i bastoni, divise, parastinchi. Ero annoiato e cominciai a leggere gli opuscoli sparsi su un tavolino, me ne capitò tra le mani uno molto strano, la frase che mi colpì fu: «La verità sulle nostre origini extraterrestri». Io ricordavo, al contrario, che le nostre origini avevano a che vedere con le scimmie, anzi ero proprio sicuro, ma continuai a leggere. L’opuscolo apparteneva al movimento religioso dei raeliani.

I raeliani credono che la specie umana sia stata creata artificialmente dagli Elohim, un popolo alieno molto avanzato; Elohim è un nome preso dalla Bibbia, in ebraico significa «divinità», al plurale. Per questo motivo tanti studiosi dei testi sacri si sono scontrati sulla questione: come può la Bibbia parlare di molte divinità? Ai raeliani non è neanche necessario citare Independence Day, rispondono subito che queste divinità non sono altro che un popolo spaziale; non proprio la prima risposta che mi verrebbe in mente. Sta di fatto che a quindici anni quell’opuscolo mi turbò molto e di conseguenza, esorcizzai ridendone con i miei amici. Qualche minuto dopo, alla reception apparve un uomo di colore, magro e alto, avvolto da una strana tunica lucida; lo capii subito: quello non era un giocatore di hockey. Seguii con lo sguardo i suoi movimenti leggeri e misteriosi; al collo aveva un intricato medaglione. Per un attimo pensai di essere in un’avventura dei Ducktales. Intorno a me folte squadriglie di hockeisti sciamavano verso i pullman. Poi intravidi una coppia di quarantenni sorridenti, magri, pallidi, i tipici francesi con le vene azzurre, trasportavano scatoloni pieni di piume e drappi e anche loro al collo avevano i medaglioni; afferrai l’opuscolo dei raeliani: il loro simbolo e quello sui medaglioni coincideva. Una voce mi distolse da quelle visioni, era il mio allenatore che ci richiamava alla partenza, la sua energia concreta e terrena mi tranquillizzò per un attimo. Poi uscimmo dall’albergo e mi si gelò il sangue: centinaia di uomini e donne in abiti pseudo-hippie muovevano verso l’ingresso; i raeliani erano arrivati! Scendevano dai parcheggi in massa, come i Cartaginesi che scendevano le Alpi, ma con lo sguardo più allegro e senza elefanti. Come se non bastasse spuntò una ragazza carina, armata di sandali e e di una camiciola colorata, si avvicinò ad un’altra donna e la baciò sulla bocca. Ora, l’hockey è uno sport molto alternativo in Italia, ma questo non significa che noi ragazzini fossimo addestrati anche a quel genere di alterità. Rimanemmo in piedi, immobili, muti. Poi accadde un’altra cosa: arrivò un uomo, anche lui con abiti colorati e sandali, si avvicinò alle ragazze, le baciò entrambe sulle labbra, poi si voltò verso un altro uomo, e fece lo stesso. Tutte insieme vedevo cose che avrei capito forse dieci anni dopo. Molti giovani hockeisti vennero presi dallo sgomento: quel genere di incontro tra persone dello stesso stesso, non era mai stato visto dal vivo e solo ai più intrepidi era stato raccontato da un cugino grande.

Io e i miei due compagni di stanza reagimmo male, tutta l’intolleranza e la cattiveria di quindicenni divampò nei nostri cervelli, eravamo ciechi di rabbia e di paura, odiavamo quelle persone: quella setta new age di amore libero ed extraterrestri avrebbe affittato per una settimana il tempio dello sport che noi avevamo amato e custodito fino a quel giorno. Dovevamo assolutamente fare qualcosa. Lasciammo la squadra e rientrammo nell’albergo spintonando altre orde di ragazzini che uscivano, infilammo le scale di corsa e attraversammo il lungo corridoio bianco, le stanze erano tutte aperte per le pulizie, tornammo nella nostra e ci chiudemmo dentro: di lì a poche ore ci avrebbero dormito i raeliani. Chissà se i raeliani dormono, chissà che non cantino qualche preghiera tutta la notte. Eravamo terrorizzati e pieni di risentimento ci guardammo intorno cercando un modo per vendicarci di quello che non ci avevano fatto, finalmente trovammo il telecomando della tv. Vibravamo d’odio e di cattiveria adolescente: aprimmo il telecomando e levammo le pile poi, con un gesto terribile come il legionario che trafigge la costola di Cristo, le gettammo fuori dalla finestra, nel giardino.

Quegli stupidi non avrebbero potuto più vedere la televisione: ce li immaginavamo sbalorditi e storditi, cercando di accenderla, pigiando furibondi sui pulsanti, piangendo. Ridevamo tra noi, invincibili.
La vendetta ci aveva calmato, tornammo spediti verso il pullman. La hall era piena di uomini e donne con vestiti eccentrici, erano tutti molto allegri e calmi. Salimmo sui pullman, io guardavo l’albergo e i raeliani; segretamente mi sentivo in colpa. Presi dalla tasca l’opuscolo che avevo conservato; c’era scritto che gli alieni sarebbero tornati qualora l’uomo avesse raggiunto un livello di civiltà sufficientemente pacifico e civile. C’era anche scritto che spesso i raeliani si riuniscono insieme per pregare e attendere i Creatori. Guardai in lontananza i campi da gioco. Erano vuoti e silenziosi, immobili nell’imbrunire. Pensai che tutto sommato era un bel posto per atterrare.

di Valerio Coletta

RARESTORIE #1 || Hockey alieno è fuori concorso.
BOOKSKYWALKER: Come Lukeskywalker cerca di sollevare l’astronave dalla palude di un pianeta sconosciuto, Bookskywalker cerca di sollevare la letteratura dalla vischiosa melma che è la vita, in un pianeta sconosciuto che è il nostro. In questa rubrica per DUDE si occuperà di racconti (sconosciuti, famosi o famosissimi) e li proporrà come fascinosa alternativa alle nottate alcoliche e alle droghe sintetiche. Leggi gli altri contributi di Bookskywalker per DUDE.

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