I Grandaddy e la robotica
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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I Grandaddy e la robotica

Negli ultimi tempi la ricerca su robot e automazione ha fatto notevoli passi avanti, ma forse ha ottenuto risultati più modesti di quanto ci saremmo potuti aspettare: viviamo una fase di transizione, molto probabilmente non faremo in tempo a vedere il mondo completamente rivoluzionato dalla presenza dei robot nella vita quotidiana degli esseri umani, ma […]

Negli ultimi tempi la ricerca su robot e automazione ha fatto notevoli passi avanti, ma forse ha ottenuto risultati più modesti di quanto ci saremmo potuti aspettare: viviamo una fase di transizione, molto probabilmente non faremo in tempo a vedere il mondo completamente rivoluzionato dalla presenza dei robot nella vita quotidiana degli esseri umani, ma siamo comunque osservatori privilegiati di un’epoca assai interessante, tesa com’è tra due poli, carica di un’incertezza che rende il passato oggetto di nostalgia e fa apparire il futuro come una via di fuga che prende tuttavia forma con una lentezza a tratti esasperante.

Ci troviamo così in quella terra di nessuno in cui si progetta l’automobile che si guida da sola mentre si riscopre la bicicletta e si inaugurano nuove piste ciclabili; o dove ci si fa consigliare la musica dall’algoritmo che genera le playlist automatiche di Spotify mentre i negozi di dischi dedicano sempre più spazio al vinile; non sappiamo ancora risolverci, insomma, tra i cambiamenti più radicali e il ripetersi dell’uguale. L’inizio di tutto questo lo si può far coincidere con quello del nuovo millennio, apertosi con un bug, il famoso Millennium Bug, che era, lo scopriamo ora, anche un’incredibile metafora: alla fine del 1999, allo scoccare della mezzanotte, i computer quale data avrebbero segnato, 2000 o 1900?

 

How’s it goin’ 2000 Man?
Welcome back to solid ground my friend
I heard all your controls were jammed
Well it’s just nice to have you back again

 

Il passaggio dal vecchio al nuovo millennio è stato anche il periodo più creativo e fortunato dei Grandaddy, che proprio nel 2000 hanno pubblicato il loro capolavoro, The Sophtware Slump, e che giusto poche settimane fa son tornati con Last Place, il loro primo album dopo 11 anni di assenza.

Quello del gruppo americano è un ritorno dotato di un certo tempismo: nessuno ha saputo raccontare i complicati rapporti tra l’uomo, la natura e la tecnologia meglio di Jason Lytle e degli altri membri della band, tutti residenti a Modesto, una piccola città californiana che conta 200.000 abitanti, a metà strada tra il parco nazionale di Yosemite, a est, e San Francisco e la Silicon Valley, a ovest. Dov’erano i Grandaddy mentre Spike Jonze girava un film sulla storia d’amore tra un uomo e un sistema operativo? Her avrebbe potuto essere una loro canzone. Ci sono mancati in questi anni, ed è di una qualche consolazione averli di nuovo con noi ora che la bambola My Friend Cayla in Germania è stata accusata di spionaggio. Un’altra storia così alla Grandaddy. Ma cos’è di preciso una storia alla Grandaddy?

 

 

Jason Lytle, mentre scriveva le canzoni che sarebbero finite in Under The Western Freeway, il disco di debutto della band, datato 1997, amava passare un sacco di tempo cercando di replicare i suoni della natura, come quelli di una cascata, o delle fronde degli alberi, utilizzando i sintetizzatori. Ecco, già mentre provava a ottenere dalle manopole di uno strumento elettronico un tipo di sensazione, un genere di esperienza simile a quella di una passeggiata nel bosco, il leader del gruppo stava iniziando ad esplorare sonorità e tematiche che avrebbero reso il percorso della band così unico e memorabile. In una storia alla Grandaddy natura e tecnologia collidono, si contraddicono, danno vita a dialettiche problematiche.

 

Broken household appliance national forest
Air conditioners in the woods

 

Il disco a cui è più legata la loro fama, come accennato prima, è però il successivo, The Sophtware Slump. Jason Lytle iniziò, come faceva sempre, a lavorarci in solitudine: allora aveva affittato da una famiglia portoghese, nella periferia di Modesto, uno spazio che era in sostanza una minuscola dépendance, e si era concentrato sulla scrittura dei nuovi brani, tirando fuori suoni che di sicuro avranno incuriosito i proprietari che, la mattina, andando a prendere le loro macchine per recarsi al lavoro, si saranno chiesti cosa diavolo stesse facendo il loro ospite, chiuso lì dentro. Beh, stava tirando fuori alcune delle canzoni migliori che i Grandaddy abbiano mai pubblicato.

 

Jed could run or walk, sing or talk and
Compile thoughts and
Solve lots of problems
We learned so much from him
A couple years went by something happened
We gave Jed less attention
We had new inventions
We left for a convention

 

All’epoca Jason Lytle aveva un rapporto controverso con l’alcol: a volte gli capitava di bere troppo, non era una sua abitudine e non lo faceva stare bene, ma amava pure quel tipo di socialità e quei momenti di divertimento che è  facile sperimentare una volta raggiunto un certo livello etilico.

Qualcun altro al posto suo avrebbe iniziato a frequentare gli incontri degli alcolisti anonimi; lui invece creò il personaggio di Jed, un robot umanoide che viene trascurato dai suoi creatori e inizia a bere fino alla morte. La sua storia in The Sophtware Slump viene raccontata in Jed The Humanoid, definita, su The Guardian, «la canzone più triste mai scritta su un robot». Poco dopo, seguendo la scaletta del disco, scopriamo anche l’attività letteraria di Jed con il brano Jed’s Other Poem (Beautiful Ground), che si intitola così perché la primissima apparizione del robot era già avvenuta nell’EP del 1999 Snow Signal Ratio, in Jeddy 3’s Poem.

Jason Lytle usa Jed per trasferire su di lui un po’ del suo senso di colpa; ma sembra anche voler dire che alcol e tecnologia non funzionano bene insieme, è quel tipo di contrasto che c’è tra i suoni di un sintetizzatore e quelli di un bosco, è quel tipo di contrasto che sta pure sulla copertina di The Sophtware Slump, con quei pulsanti presi da una tastiera e adagiati in una valle a comporre il titolo dell’album. Inoltre, nella voglia di Jed di fare cose umane, come mentire, ubriacarsi, scrivere un poema, o provare a cantare come Beck,  troviamo la stessa tragica, e in qualche modo tenera, predisposizione al fallimento dei robot che 15 anni dopo ancora non riescono proprio ad aprire una porta al DARPA Robotics Challenge.

 

 

Nella poetica dei Grandaddy, quindi, la tecnologia non cambia il mondo: i robot soffrono di problemi molto umani, e di converso gli umani hanno una vita e dei pensieri che li rendono sempre più simili a delle macchine. Nel disco successivo, Sumday, pubblicato nel 2003, c’è un pezzo incredibile, The Group Who Couldn’t Say, che descrive proprio una situazione del genere: il gruppo a cui fa riferimento il titolo è composto da dipendenti che sono riusciti a realizzare più vendite di tutti gli altri e sono stati perciò premiati dai loro capi con una gita in campagna. Quello che succede, però, è che gli umani, immersi nella natura, fanno esperienza di momenti di pura alienazione, mentre i desktop, lasciati in ufficio, piangono di notte mentre non c’è nessuno.

 

Darryl couldn’t talk at all
He wondered how the trees had grown to be so tall
He calculated all the height and width and density for insurance purposes
And at the desktop there’s crying sounds
For all the projects due and no one else is around

 

Jason Lytle è abile a mantenersi in bilico tra momenti distopici come questo e descrizioni più classicamente metaforiche, che tuttavia si nutrono dello stesso immaginario; in Just Like The Fumbly Cat, disco nato postumo, uscito nel 2006 mesi dopo che la band aveva già annunciato il proprio scioglimento, c’è una canzone perfetta, Disconnecty, che affronta un tema classico come quello dell’allontanamento di un figlio da una madre restando comunque all’interno di un orizzonte di senso tecnologico.

 

Dearest Mom
Your yearling son
Has sent a message through
He’s disconnected, but he still loves you

 

Nel nuovo album Last Place, uscito il 3 marzo, c’è un altro esempio simile. Si tratta di un disco che Jason Lytle ha scritto tra mille difficoltà, in un periodo in cui stava affrontando il divorzio con la moglie, vivendo a Portland, uno dei luoghi più bigi e piovosi degli Stati Uniti, maturando una vera e propria ossessione per il ritorno alla storica sigla Grandaddy.  Qui torna dopo tanti anni anche il personaggio di Jed: nonostante il tempo trascorso, Jason Lytle non pare aver cambiato idea sull’incontro tra l’alcol e la tecnologia; e così in Jed the 4th scopriamo che il robot ha lasciato un figlio, che ora si trova in un centro di riabilitazione, perciò non si farà più vedere in giro.

 

You know it’s all a metaphor
For being drunk and on the floor
So give it up for Jed the 4th
Though he don’t come around no more

 

Sembra un ultimo tributo e un commiato definitivo, dove la metafora è infine scoperta e non si lascia troppo spazio a un futuro happy end robotico. I Grandaddy invece li ritroveremo presto: hanno firmato un contratto per due nuovi album, e dunque Last Place sarà nel peggiore dei casi il loro penultimo disco.

Gilles Nicoli
È nato a Roma sette giorni prima che Julio Cortazar morisse a Parigi. Scrive di videogiochi su Ludica. Ama il cinema, la buona letteratura e la frutta.
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